Esempi d’uso. (RI)CERCARE NEL TESORO

di Giacomo Micheletti e Federico Milone

Ci sono, nella storia del premio Strega, libri in cui si usano spesso forme dialettali? Per contro, quali autori si servono più spesso di vocaboli letterari? I grandi scrittori del Novecento usavano molti anglismi? Sono tutte domande che possono trovare una risposta grazie al Primo tesoro della lingua letteraria italiana del Novecento e contemporanea.

La marcatura dei testi secondo determinate categorie (grammaticali, d’uso, di provenienza, ecc.) consente infatti di interrogare il corpus dei grandi libri dello Strega e di ricavare, tramite le funzioni di ricerca avanzata, informazioni interessanti – oltre che per lo studio dei testi – per tutte le persone appassionate della letteratura e della lingua italiana.

In questi paragrafi mostriamo alcuni esempi di possibili ricerche, accompagnati da un breve commento che di volta in volta evidenzia gli aspetti salienti e fornisce una precisa chiave di lettura. Ciascun esempio è identificato da un titolo, dalla sequenza di operazioni che ha reso possibile la ricerca e da un sommario dei temi trattati. Per ogni romanzo si indica la data di partecipazione al Premio Strega (e non la data di pubblicazione). Alcuni collegamenti ipertestuali rimandano ad altre aree del sito in cui recuperare informazioni aggiuntive su opere o autori.

ricerca avanzata -> tecnico specialistico: Informatica
ricerca avanzata -> singolo lemma: computer
Esotismi, linguaggi tecnici, informatica

Oggi le parole dell’informatica ci sono molto famigliari. Tutti i giorni clicchiamo sulle icone del desktop, restiamo incollati ai monitor e apriamo software e applicazioni. Questi vocaboli, però, hanno una circolazione abbastanza recente. Lo si vede bene ricercando nel tesoro i termini tecnici dell’informatica come email, emoticon, file, home page, laptop, mouse, streaming, webcam. Tutte parole che oggi fanno parte del nostro quotidiano, ma che cominciano a far capolino nei libri dello Strega appena dopo la data spartiacque del 2000. È il segno dell’accrescersi dell’importanza di questo settore nelle nostre vite, che si riflette nell’aumento del loro uso nei romanzi e nei racconti.

Ricercando nel tesoro la parola computer si risale un po’ più indietro nel tempo e ci si imbatte in una sorpresa. La prima attestazione non si lega a un contesto fantascientifico o avveniristico, bensì ai valzer viennesi di Strauss. Il primo a nominare il computer è infatti Claudio Magris in Danubio (1987), un libro-saggistico che racconta, con passo divagante, i luoghi attraversati dal fiume. Il viaggio passa per Vienna: qui, la sede dell’IBM è sorta nello stesso luogo in cui Strauss aveva eseguito per la prima volta, nel 1867, Sul bel Danubio blu, uno dei suoi valzer più straordinari.

Insomma, l’informatica si lega alla musica: ma Magris non si scompone. Una conferma di questo legame, nota l’autore, la si trova anche nella cinematografia e in particolare nel futuristico film di Stanley Kubrik, 2001 Odissea nello spazio. Ad accompagnare l’astronave spinta da microprocessori informatici c’è una musica: è proprio – curiosa coincidenza – Sul bel Danubio blu di Strauss. Il valzer è insomma un ponte fra passato e futuro e chi lo ama, scrive, «non si scandalizza che, nel 1982, un computer sia stato proclamato uomo dell’anno».

ricerca avanzata -> provenienza -> esotismo: Inglese
Esotismi, anglismi

L’arrivo nell’italiano delle parole straniere è sempre dipeso dall’altalenante prestigio di ciascuna lingua estera. Nel corso del Cinque e del Seicento, ad esempio, è stato lo spagnolo il maggior contributore al nostro vocabolario, anche per il peso politico dell’impero spagnolo con le colonie d’oltreoceano e per la fama degli autori del Siglo de oro come Cervantes. Dal Settecento si diffonde quella che fu definita gallomania: la passione per le mode e le parole francesi che, durata almeno due secoli, ha portato in italiano – nonostante l’avversione dei puristi – moltissime voci d’oltralpe. L’inglese, che oggi è di sicuro la lingua più pervasiva, ha superato il francese solo alla metà del Novecento, quando – dopo la Seconda guerra mondiale – si è imposto nel nostro immaginario il mito americano, testimoniato anche da film come Un americano a Roma con Alberto Sordi (1954) o da canzoni come Tu vuo’ fa’ l’americano di Renato Carosone (1957).

Una specifica ricerca nel nostro tesoro dimostra che la lingua del racconto ha accolto quasi da subito – anche se in dosi spesso minime – questo vocabolario d’oltreoceano. Isolando gli anglismi presenti nei libri del tesoro datati tra il 1947 e il 1953, si contano 53 vocaboli (pochi, nel complesso). Fra questi, ben 26 appartengono ad àmbiti ben precisi: il mondo dei drink e dei bar; il gioco e lo sport. Nelle pagine dei maggiori scrittori del tempo, le orchestre fanno ballare i personaggi sulle note di ritmici boogie-woogie (Vittorini), partono «a tutta callara» – romanesco per ‘a tutta forza’ – con un charleston (Pasolini) o con dei vorticosi fox-trot (Palazzeschi). Ma i musicisti possono attaccare un «blues molle, sincopato» (Pavese) o dare avvio a un nuovo giro di ballo con uno slow, cioè un lento, o ancora con «un colpo eroico del jazz» (entrambi in Pratolini). I personaggi di Calvino si ritrovano – proprio come quello della canzone di Carosone («Tu vuoi vivere alla moda / Ma se bevi whisky and soda / Po’ te siente ’e disturbà») a bere «Whisky and soda», parlando con «una pronuncia inverosimile, facendo ruotare i bicchieri sul marmo» (nel racconto Dollari e vecchie mondane di Ultimo viene il corvo). Quelli di Pavese invece prediligono il gin, lo cherry, o più generici cocktail richiesti al barman. Fra i giochi e gli sport compaiono qua e là il bridge (Alvaro), il whist (Bontempelli), l’immancabile poker (Flaiano e altri); poi il football (Carlo Levi) e il water polo (Pratolini), che anticipano di qualche anno l’esplosione degli anni seguenti, con gli sprinter delle piste d’atletica e i ring della boxe, il baseball, il rugby. Insomma, la narrativa riflette il diffondersi in Italia di abitudini, mode e oggetti nati in area statunitense: l’american way of life.

ricerca avanzata -> singolo lemma: troll
Esotismi, neologismi semantici

Nell’Armata dei fiumi perduti (1985) Carlo Sgorlon racconta la storia di un reparto di cosacchi dislocati dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 in un piccolo paese della Carnia, nel Friuli Venezia Giulia. Qui, i soldati vengono attaccati dai partigiani jugoslavi, paragonati a «spiriti folletti che vagassero per l’aria, invisibili, imprendibili, come elfi o tröll, che però sparavano e uccidevano». I tröll, come gli elfi, sono inafferrabili figure del folklore scandinavo, abitanti demoniaci dei boschi e delle montagne, custodi di tesori generalmente assimilabili ai nostri orchi.

Proprio per quest’ultima ragione, nell’ultimo decennio il termine ha assunto un nuovo significato, come spiega Edoardo Albinati nella Scuola cattolica (2016). Scorrendo il dito sul suo tablet, il narratore racconta delle «battute acide, accuse, rimostranze, repliche sul tenore di: siete soltanto servi, ladri, miseri lacchè, venduti, decerebrati, ubriaconi, spie, fregnoni» in cui si imbatte. È proprio in questo contesto digitale che si usa molto il termine troll, con un nuovo significato metaforico che Albinati si premura di spiegare, ricorrendo al vocabolario. Si tratta di utenti che interagiscono esclusivamente «tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o senza senso, con l’obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi». Altrettanto imprendibile e ancor più demoniaco, il troll non abita più i luoghi impervi e isolati del nord Europa, ma è ben insediato dentro i nostri computer.

ricerca avanzata -> singolo lemma: Dante AND categoria grammaticale: nome proprio (nome)
Dantismi

Dante è uno fra gli autori più citati nella narrativa italiana del Novecento. Ricercando il suo nome nel tesoro, si ottengono più di sessanta risultati: il doppio di quelli relativi a Petrarca e Boccaccio messi insieme. Una ragione di questo successo è di sicuro la riconoscibilità della Divina Commedia, capolavoro famigliare a tutti i lettori. Forse è passato il tempo in cui nelle scuole se ne imparavano a memoria brani più o meno estesi. Nondimeno, ancora oggi tutti gli italiani conoscono almeno qualche verso del poema:  alcuni – come «far tremar le vene e i polsi» – sono diventati quasi proverbiali. Un autore come Gadda, nelle Novelle del Ducato in fiamme (1953), gioca proprio con questa conoscenza mnemonica, a volte in maniera ironica. Il suo dottor Velaschi, parlando di pedagogia, vuole riprendere l’insegnamento di Beatrice nel Purgatorio: il terreno buono peggiora più degli altri se resta incolto o si usa una cattiva semente. La memoria però lo inganna, con un esito grottesco: per come lo ha inteso il dottore, più la terra è fertile, più l’albero diventa «maligno e silvestro». Insomma, pare dirci Gadda: possiamo credere di ricordare le parole di Dante a memoria, ma prima di citarle è meglio esser certi di averle capite.

Qualcosa di diverso avviene con un altro tipo di memoria dantesca. La Divina Commedia è stata infatti, da subito, un potente generatore di immagini che si sono impresse profondamente nella nostra mente, anche grazie a edizioni illustrate particolarmente fortunate come quella ottocentesca di Gustave Doré. Un esempio di questa "memoria fotografica" sui generis si trova nel romanzo di Emanuele Trevi, Due vite (2021). Il narratore racconta un dialogo con l’amico Rocco: «Gli avevo detto che, mentre leggevo, mi era venuta in mente l’immagine poetica del naufrago di Dante che, raggiunta la riva “con lena affannata”, contempla il mare in tempesta e il pericolo scampato per un soffio. A Rocco piacque il paragone». Le parole di Dante ci sono, e sono anche virgolettate. Più potente ancora, però, è l’immagine del naufrago che guadagna la riva e si volge a guardare il mare.

ricerca avanzata -> uso: letterario
ricerca avanzata -> singolo lemma: disdoro
parole letterarie, anacronismi

I romanzi del tesoro più ricchi di parole letterarie, cioè quelle proprie delle grandi opere della tradizione e meno ricorrenti nel discorso quotidiano, si possono sommariamente dividere in due gruppi. Da un lato ci sono i romanzi degli autori più sperimentali, che in ogni loro romanzo propongono meccanismi linguistici che scartano dalla lingua comune. Tra questi, pur con tutte le loro differenze, possiamo annoverare ad esempio Landolfi e Gadda. Dall’altro, invece, ci sono i tanti romanzi storici che hanno appassionato i lettori dello Strega: Artemisia di Anna Banti (1948), Il nome della rosa (1981) di Umberto Eco, Rinascimento privato (1986) di Maria Bellonci. È abbastanza normale, d’altronde, che le narrazioni ambientate nel passato, per immergere il lettore in un tempo lontano, attingano al patrimonio più arcaico e desueto delle parole letterarie. Vocaboli che assumono così la funzione di parole atmosfera.

Fra questi c’è – ad esempio – disdoro, che letteralmente significa ‘disonore’ o ‘vergogna’: un vocabolo usato da Alfieri, Foscolo e Carducci. Nei romanzi del tesoro disdoro compare soltanto in quattro romanzi, tre dei quali sono già stati citati. Gadda impiega la parola nelle sue Novelle dal Ducato in fiamme (1953), in un contesto piuttosto aulico in cui la parola certo non stona: «non poteva essere sfiorato dalla di lei pietà, senza un riverbero di disdoro per lei».

Landolfi, in A caso (1977, nel racconto Il riso) la usa nella paradossale confessione di un assassino prezzolato: «Lo confesso a mio disdoro: non ho il coraggio di ucciderla». Questa volta l’effetto è straniante e contribuisce a dar vita alla figura un po’ surreale del killer forbito. È ovviamente una scelta dell’autore, che ben si accorda al tenore della trama: questo sicario dalla parlata sciolta è stato assoldato dal protagonista, che vuole essere ucciso senza preavviso.

E infine c’è il romanzo storico di Umberto Eco, Il nome della rosa. La storia, come racconta l’introduzione, s’immagina trasmessa da un manoscritto del Trecento, poi andato perduto: un po’ come fa Manzoni per I promessi sposi, chi scrive dice di averla tradotta da una versione francese dell’Ottocento. È attraverso questi passaggi che si giustifica l’uso di una parola come disdoro. Il vero narratore della vicenda, il giovane monaco Adso, non avrebbe potuto infatti usarla: la parola arriva in italiano alla fine del Seicento proveniente dallo spagnolo desdorar "togliere l’oro", un termine nato a sua volta solo nel secolo precedente.

ricerca avanzata -> tecnico specialistico: Pittura
ecfrasi, pittura

Siamo nel paese di Zardino, in Piemonte, nel Seicento. Un madonnaro viene chiamato per dipingere una piccola edicola votiva. Arrivato sul posto, vede una giovane di straordinaria bellezza e dipinge la Vergine con le sue fattezze: adolescente, «labbra carnose», «occhi neri come la notte, e luminosi come il giorno», un «ricciolo ribelle» che cade sulla guancia e infine un «neo sul labbro superiore sinistro». La scelta non piace al parroco, che si rifiuta di benedire l’edicola, ed è una delle prove che dimostrano che Antonia (questo il nome della giovane) è in realtà una strega. Il racconto è solo un filo della trama del romanzo La chimera (1990) di Sebastiano Vassalli, ma mostra quanto possa essere stretto il legame tra pittura e scrittura. E non è certo l’unico caso in cui ci troviamo di fronte ad analitiche descrizioni – ecfrasi, per usare un termine tecnico – di quadri.

Ricercando nel Tesoro i termini tecnici della pittura, se ne trovano così tanti da poter immaginare una sorta di museo virtuale. Proviamo a visitarlo insieme, indugiando davanti ad alcune opere risalenti soprattutto al Rinascimento e al Barocco. Il Rinascimento privato di Maria Bellonci (1986) ci porta fra i grandi maestri italiani. La protagonista Isabella d’Este infatti vive quotidianamente muovendosi tra capolavori come la Sala dei Trionfi e la Camera degli Sposi, entrambe decorate dal Mantegna. Per questo può permettersi di descrivere con poco entusiasmo quel «disegno tutto sfilato, alberi di esili fogliame e figurini di uomini e donne abbandonate» che è nientemeno che la Lotta tra amore e castità del Perugino. In questa galleria di quadri non può mancare, ovviamente, Raffaello. L’ambasciatore americano protagonista del romanzo Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo (1996) di Alessandro Barbero indugia a lungo davanti alla sua Madonna sistina, conservata a Dresda, e questa stessa opera appare anche nel Tolstoj di Pietro Citati (1984). Dal Rinascimento italiano si passa a quello del resto d’Europa: Arbasino nell’Anonimo lombardo (1960) ci raccomanda Il seppellimento del conte d’Orgaz di El Greco, mentre Bevilacqua nell’Occhio del gatto (1969) ricorda il San Cristoforo del fantasioso Bosch, maestro del grottesco, con l’iconico pesce impiccato al bastone del santo.

Scivolando verso il Barocco incontriamo l’Artemisia (1948) di Anna Banti, romanzo interamente dedicato alla straordinaria pittrice Artemisia Gentileschi. Molte righe riguardano la progettazione del suo meraviglioso Giuditta e Oloferne («nella mente di Artemisia tutto era pronto. Oloferne, Giuditta e Oloferne. La testa ravvolta in un panno. No, la testa nuda e sanguinosa. E perché non il corpo, il grosso corpo del tiranno? Vedano, questi toscani, se so disegnare»). Lo stesso soggetto, ma in tinte più melò, con una Giuditta «sensuale e severa nei suoi panneggi», è dipinto da Guido Cagnacci e ricordato da Walter Siti in Resistere non serve a niente (2013). A chiudere il nostro museo virtuale, infine, potremmo mettere il Giove di Carlo Cignani descritto da Claudio Magris in Danubio (1987). Il dio greco è qui emblema dell’ambiguità: «il corpo, muscoloso e possente» da un lato, «il viso incorniciato da una folta capigliatura bianca è quella di un vecchio che potrebbe essere piuttosto una vecchia» dall’altra.

ricerca avanzata -> provenienza -> dialettale: romanesco
dialettalismi, Roma

Fin dalle sue origini, la storia della lingua italiana è strettamente legata a quella dei vari dialetti della penisola. Questo è particolarmente vero per la letteratura e in particolare per quella del secondo Novecento, inaugurata dalla stagione neorealista con la riscoperta dell’universo popolare e delle sue parlate.

All’interno di questa temperie trova posto la complessa figura di Pier Paolo Pasolini, che – dopo gli esordi poetici in dialetto friulano – nei suoi celebri romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) ha inteso fornire un’esplorazione tra il mitologico e l’antropologico delle vecchie borgate di Roma Est e della loro popolazione di emarginati, riproducendone la parlata popolare e aggressiva. Per misurare la portata di questi romanzi nella storia della nostra lingua letteraria, è sufficiente interrogare il tesoro, cercando attraverso la maschera di ricerca tutte le parole di provenienza romanesca.

La caratura romanesca del dittico pasoliniano spicca immediatamente nella storia dei romanzi Strega, con numeri che non si ripeteranno più: 5330 forme dialettali in Ragazzi di vita, addirittura 7269 in Una vita violenta. A grande distanza segue, con 408 forme, il recente Resistere non serve a niente (2012) del modenese Walter Siti, non a caso cultore e studioso dell’opera di Pasolini.

Merita però di essere menzionato, a conferma del discreto revival dell’italiano “de Roma” nella nostra più recente letteratura, il caso della Scuola cattolica (2016) di Edoardo Albinati, che – nella sua familiarità con le punte più basse del parlato d’area romana – intende recuperare l’eredità espressiva del “poeta delle borgate”.

ricerca avanzata -> restringi la ricerca: Novelle del ducato in fiamme -> provenienza -> dialettale: napoletano, romanesco, milanese, genovese
dialettalismi, espressionismo

Carlo Emilio Gadda, milanese ma legatissimo alla città di Roma come testimonia il suo capolavoro Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1946-1957), è sicuramente il campione dello sperimentalismo linguistico nel romanzo italiano del Novecento.

Nelle sue opere maggiori, l’Ingegnere ha orchestrato uno spettacolo all’insegna della più pirotecnica mescolanza: dialetti, gerghi, lingue antiche e straniere, tecnicismi, neologismi modulati in una eccezionale varietà di registri, dal tragico al comico all’elegiaco (e non stupisce che il suo caso sia stato ricondotto da Gianfranco Contini, risalendo la corrente espressionistica della nostra storia letteraria, al grande modello dantesco).

Questo caleidoscopio plurilingue non ha però una funzione realistica: non intende riprodurre fedelmente la specifica parlata di un luogo in una data epoca, tutt’altro. Per Gadda, si sa, a essere un “pasticciaccio” è la realtà stessa, che la scrittura tenta di rispecchiare (e, per quanto possibile, ordinare). Di Gadda prendiamo qui in considerazione la raccolta di Novelle dal Ducato in fiamme (1953), contenente alcuni dei migliori racconti dell’autore come L’incendio di via Keplero: una specie di rappresentazione “in simultanea”, quasi futurista, del rogo che colpisce un caseggiato e della fuga precipitosa dei suoi abitanti.

Delle 178 parole dialettali individuate tramite il filtro di ricerca, 112 sono di provenienza milanese, il che non è un dato sorprendente. Ma basta sfogliare – anche virtualmente – il libro, per imbattersi nel tipico miscuglio gaddiano di dialetti e intonazioni: napoletano (Manco p’aa capa); romanesco (come nel caso dei verbi volecce e ssarvà, inequivocabilmente marcati in senso dialettale) e anche genovese, con la tipica locuzione baté u belìn.

ricerca avanzata -> singolo lemma: baiocchi, danée, grano, marengo, schei, palanche, piotte
ricerca avanzata -> tecnico specialistico:  Numismatica
dialettalismi; geosinonimi; tecnicismi numismatica

Baiocco è il nome di una moneta d’argento diffusa in epoca moderna, fino al secondo Ottocento, soprattutto nello Stato della Chiesa: ne troviamo qualcuno nel romanzo storico Artemisia di Anna Banti, ambientato proprio nella Roma barocca. Ma i baiocchi, secondo un prevedibile uso estensivo, sono poi entrati nella bocca (e nelle tasche) dei parlanti italiani col significato scherzoso di “soldi”, “denaro”. Almeno fino a quando, in epoca contemporanea, sono stati affiancati e poi sostituiti da altre forme colloquiali o di origine gergale come grana (ben presente nei romanzi romaneschi di Pasolini e nel Ponte della Ghisolfa del milanese Giovanni Testori), o ancora dall’anglismo cash, quest’ultimo di più recente diffusione nella nostra lingua (tanto che il corpus del tesoro non ne offre traccia). Ma il lessico della numismatica, intrecciato com’è alle parole della quotidianità (quelle che designano, in breve, le cose da acquistare, come il cibo e gli oggetti d’uso comune) conosce nella lingua italiana una straordinaria varietà storica e locale: si trovano paoli, ducati, marenghi (nella Malora di Beppe Fenoglio se ne parla molto, anche se ce ne sono pochi), tarì, fiorini, giulii e tanti altri.

Volendo, è possibile estendere la ricerca anche a usi dialettali ben circoscritti, attraverso una serie di ricerche semplici: si incontrano così i milanesi danée, che per Carlo Emilio Gadda, come si legge in una delle sue Novelle dal ducato in fiamme (1953), non si trovano per strada; i veneti schei in Canale Mussolini (2010) di Antonio Pennacchi; le liguri palanche (ancora in Pasolini e Testori) e infine le famose piotte, con occorrenze numerose e tutte relative ancora una volta al dittico pasoliniano di Ragazzi di vita e Una vita violenta.

ricerca avanzata -> tecnico specialistico: Meccanica, Chimica
tecnicismi

Con il romanzo La chiave a stella, Primo Levi – a lungo noto unicamente per il suo esordio narrativo, Se questo è un un uomo – vince l’edizione 1979 del premio Strega. La chiave a stella racconta le avventure di un operaio specializzato, Libertino Faussone, che per lavoro viaggia in giro per il mondo montando gru, ponti, tralicci, strutture metalliche. Ed è proprio lo stesso Faussone, nella finzione del romanzo, a raccontare a Levi le proprie avventure, con una lingua impregnata dei modi di dire della regione d’origine del personaggio: il Piemonte, che è poi la stessa dell’autore. È quindi una parlata, quella di Faussone, molto espressiva e popolare, ma al tempo stesso caratterizzata dal ricorso al vocabolario professionale del personaggio. Tutte quelle parole tecniche, provenienti soprattutto dalla meccanica e dalla tecnologia, esprimono e riassumono la sua visione del mondo, l’etica del lavoro ben fatto: l’approccio artigianale che è anche quello dello stesso Levi nei confronti della scrittura.

Questo l’incipit del romanzo:

«Eh no: tutto non le posso dire. O che le dico il paese, o che le racconto il fatto: io però, se fossi in lei, sceglierei il fatto, perché è un bel fatto. Lei poi, se proprio lo vuole raccontare ci lavora sopra, lo rettifica, lo smeriglia, toglie le bavature, gli dà un po’ di bombé e tira fuori una storia; e di storie, ben che sono più giovane di lei, me ne sono capitate diverse.»

L’attenzione antropologica che si respira in queste righe per il mestiere di Faussone fa tutt’uno con la resa del suo linguaggio ricco di tecnicismi: smerigliare, bavature, bombé.

La lingua del romanzo italiano (e più in generale, la nostra cultura umanistica) ha sempre opposto, nei secoli, una decisa resistenza ai vocaboli tecnici: una resistenza che verrà gradualmente superata solo nel Novecento. Per quanto riguarda il lessico della meccanica, ad esempio, possiamo misurare lo scarto introdotto nei romanzi Strega in termini quantitativi (e qualitativi) da Primo Levi.

Troviamo in Levi un vocabolario esatto, preciso, di alta specializzazione fatto di bielle, carrucole, coibentatore, flangione, pulegge, serraggio dei bulloni… La stessa verifica può essere condotta per il lessico della chimica, il primo mestiere di Levi (che raccontava di essere diventato scrittore proprio in quanto chimico), per cui il vocabolario della Chiave a stella costituisce uno dei romanzi più rappresentativi: acido acetico, acido muriatico, acido nitrico, sale ammoniaco, tintura di iodio. Termini che in buona parte ricorrono solo questa volta in tutto il tesoro, così come alcuni che Gadda aveva usato nelle sue Novelle dal ducato in fiamme (1953): il benzolo e il solfuro di carbonio, ad esempio.

ricerca avanzata -> tecnico specialistico: Archeologia, Botanica, Geometria
tecnicismi

Il tesoro costituisce un’ottima occasione per riscoprire da un’angolazione inedita molti romanzi della nostra letteratura più recente. Prendiamo, ad esempio, uno dei più grandi bestseller italiani di sempre: Il nome della rosa di Umberto Eco (1981): una sorta di thriller storico ambientato in un monastero benedettino dell’Italia del Trecento. Un romanzo che mescola rimandi culturali e generi letterari diversi, tanto da rappresentare uno dei classici del cosiddetto “post-modernismo”: incrocio di riferimenti alti e bassi (dalla filosofia alla musica pop), per una rilettura del passato in chiave ludica e distaccata.

Può essere interessante tornare a sottolineare l’originalità di questo romanzo a partire da alcuni degli ambiti tecnico-specialistici frequentati dal suo erudito autore, che prima di diventare un romanziere di fama mondiale era stato un grande studioso di semiotica e aveva cominciato i suoi studi come filosofo e medievista: l’archeologia, la botanica, la geometria.  

Il nome della rosa spicca tra i libri dello Strega anche per la quantità di termini propri dell’ambito archeologico: 23 occorrenze, relative per la maggior parte alla parola bàlnea, plurale alla latina di balneo, con cui si indicano i bagni pubblici dell’antichità. E si capisce come vocaboli di questo tipo contribuiscano all’atmosfera anticheggiante e misteriosa del romanzo, che è anche l’opera Strega con più termini provenienti dall’ambito della botanica (ben 40, annunciati – si direbbe – già dalla rosa del titolo): spesso latinismi preziosi come althea, balsamodendrom myrra, glycyrrhiza. Quello della botanica è peraltro un ambito ben rappresentato nel tesoro, fin da Ultimo viene il corvo (1949) di Italo Calvino, in cui s’incontrano anche rarità come il mesembrianthemum. Ma Il nome della rosa è anche l’opera Strega con il maggior numero di parole provenienti dal campo della geometria: lo si vede – del resto – fin dalle alette della sovraccoperta, su cui campeggia l’impianto ottagonale della biblioteca del monastero in cui l’opera è ambientata.


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