Grammatica sabbatica.
Il parlato nei premi Strega 1947-2021

di Giuseppe Antonelli

La caccia allo Strega

Partiamo da lontano. Era il 1527 (forse 1528) quando a Collevecchio, un piccolo centro del contado romano, una donna di nome Bellezze Ursini fu accusata di stregoneria. Nel tentativo di sfuggire al rogo, scrisse – lei, popolana che faceva la domestica e la guaritrice – una confessione autografa in cui ammetteva tutte le assurde colpe che le erano state imputate. Poche paginette scritte come poteva: in una lingua inevitabilmente compromessa con le sue abitudini di parlante. È dal 1947, invece, che ogni anno si riapre – verso il mese di marzo – la caccia allo Strega. E allora, dalla lingua della strega a quella degli Strega: come sono scritti i libri che partecipano con successo al premio? C’è (o c’è stata) una sorta di grammatica sabbatica in grado di garantire quel successo?

Se si guarda ai vincitori degli ultimi venti anni, parrebbe di no. Basta distogliere per un attimo l’attenzione dalle scuderie editoriali e ci si accorge subito che la lingua tornita e raziocinante della Ferocia (il romanzo di Nicola Lagioia che, pubblicato da Einaudi, ha vinto nel 2015) ha ben poco a che vedere con quella studiatamente leggera del Desiderio di essere come tutti (Francesco Piccolo, 2014) o con la geometrica musicalità dello Stabat mater di Tiziano Scarpa (2009); così come la lingua scalena del picaresco Spaesati di Mario Desiati (2022) con la cristallina epica paesistica delle Otto montagne di Paolo Cognetti (2022). Difficile, allo stesso modo, accomunare la conversazione salottiera ricostruita in laboratorio dal Walter Siti di Resistere non serve a niente (2013) con l’emotiva autofiction di Edoardo Nesi (Storia della mia gente, 2011), con quella più malinconica e filosofica delle Due vite di Emanuele Trevi (2021) o con quella fluviale e meravigliosamente debordante che Edoardo Albinati nel suo La scuola cattolica intesse con una vicenda tristemente nota di cronaca nera (2016).

E ancora: come sovrapporre la trama spiraliforme del Caos calmo di Sandro Veronesi (2006) in cui si sprigiona una gamma di toni che va dal comico all’erotico, dall’infantile allo psichedelico o l’andirivieni cronologico e stilistico del suo bis con Il colibrì (2020) al neo-verismo con cui Antonio Pennacchi racconta l’esodo nella terra promessa dell’Agro pontino (Canale Mussolini, 2010) o al monumentale M. Il figlio del secolo in cui Antonio Scurati ricostruisce l’ascesa al potere dello stesso Mussolini (2019)? Lo stesso vale per la composita ricerca espressiva di una non madre lingua come Helena Janeczeck nel suo La ragazza con la Leica (2018), per le metafore immaginifiche di Paolo Giordano (La solitudine dei numeri primi, 2008), per la letteratissima ironia di Alessandro Piperno (Inseparabili, 2012), per certe pagine iperboliche di Come dio comanda (Niccolò Ammaniti, 2007): come il suo ormai celebre incipit.

«Svegliati! Svegliati, cazzo!»
Cristiano Zena aprì la bocca e si aggrappò al materasso come se sotto ai piedi gli si fosse spalancata una voragine.
Una mano gli strinse la gola. «Svegliati! Lo sai che devi dormire con un occhio solo. È nel sonno che t’inculano.»
«Non è colpa mia. La sveglia…» farfugliò il ragazzino, e si liberò dalla morsa. Sollevò la testa dal cuscino.
Ma è notte, pensò.
Fuori dalla finestra era tutto nero tranne il cono giallo del lampione in cui affondavano fiocchi di neve grossi come batuffoli di cotone.
«Nevica» disse a suo padre, in piedi al centro della stanza.
Una striscia di luce s’infilava dal corridoio e disegnava la nuca rasata di Rino Zena, il naso a becco, i baffi e il pizzo, il collo e la spalla muscolosa. Al posto degli occhi aveva due buchi neri. Era a petto nudo. Sotto, i pantaloni militari e gli anfibi sporchi di vernice.

A permetterci una valutazione meno impressionistica c’è lo sguardo lungo sul passato. Ma prima di vedere se e come è cambiata la lingua dei romanzi dello Strega negli ultimi settant’anni, è necessario vedere come è cambiato l’italiano (fig. 1). A partire dal secondo dopoguerra, infatti, prendono forza alcuni fenomeni che cambiano il modo di parlare degli italiani. Basti pensare all’istruzione di massa, che dal 1948 è garantita «libera e gratuita» dalla nostra Costituzione. Oppure alla crescente mobilità fra Nord e Sud, con il fenomeno, più o meno marcato a seconda dei periodi, dell’emigrazione interna. O ancora, ed è lo sviluppo di maggiore impatto, alla diffusione capillare della televisione, che dal 1954 vince – grazie al mix di parole e immagini – la concorrenza della radio, e diventa uno strumento potentissimo di diffusione dell’italiano.

Sono fenomeni che accelerano la rottura di un equilibrio rimasto stabile per secoli e fondato sulla polarizzazione fra una lingua scritta e letteraria (l’italiano, appunto) e una pluralità di lingue parlate (i dialetti). La grande massa degli italiani comincia proprio in questi anni ad avvicinarsi alla lingua nazionale, adoperando una varietà che è stata definita l’italiano popolare. È la varietà d’italiano appresa, in maniera parziale e assai imperfetta, da chi parlava dialetto: quella che si può leggere, ad esempio, nelle lettere degli emigranti o dei soldati della Prima guerra mondiale. Sull’altro versante, anche alcuni tipi di italiano scritto cominciano ad adottare un registro più basso: dalla linea dell’italiano letterario si stacca a un certo punto l’italiano dei giornali, che si giova di alcune soluzioni più vicine all’oralità.

Questo processo, che democraticamente avvicina al grande patrimonio dell’italiano fasce sempre più consistenti di popolazione, conosce una svolta decisiva alla metà degli anni Ottanta. È in quel momento che le statistiche mostrano per la prima volta il “sorpasso” tra l’uso dell’italiano e l’uso del dialetto nella media della popolazione italiana. L’italiano non è più soltanto una lingua letteraria e scritta, ma accoglie ormai al suo interno usi, stili e registri linguistici diversi. Anche la norma tetragona tramandata dalla tradizione s’incrina. L’italiano si usa in diverse situazioni comunicative e dunque si trasforma: la sua stessa grammatica evolve grazie agli usi del parlato. Proprio nel 1985, Francesco Sabatini conia per identificare questo nuovo italiano della comunicazione quotidiana la fortunata definizione «italiano dell’uso medio».

Negli ultimi due decenni, altri processi evolutivi hanno ulteriormente modificato questo assetto. La lingua della tradizione letteraria continua a essere insegnata nelle scuole e costituisce quello sclerotizzato standard scolastico che potremmo definire come il tetto della nostra lingua. Al di sotto di questo tetto, per fortuna, c’è un certo movimento. Da un lato, l’avvento del digitale ha avvicinato una nuova massa di persone alla scrittura: basta pensare alla diffusione della messaggistica istantanea, dagli sms di inizio millennio alle odierne applicazioni come social network e WhatsApp. Un po’ come per le cartoline del secolo scorso, queste forme di scrittura sono utilizzate per la comunicazione a distanza di tipo informale e dunque appartengono a quella che è stata definita la «neoepistolarità tecnologica». Intanto, le previsioni che già dagli anni Sessanta vaticinavano l’inevitabile morte dei dialetti sono state clamorosamente smentite. L’indagine ISTATdel 2015 (l’ultima riguardo a questi aspetti) conferma la diminuzione di chi parla anche in famiglia esclusivamente dialetto, ma racconta un’Italia in cui circa un terzo della popolazione in casa sia in italiano sia in dialetto. Il dialetto – dunque – non è più considerato la lingua delle persone ignoranti, di chi non ha potuto studiare; ma la lingua da usare in famiglia, con gli amici, negli usi più spontanei e rilassati. Come ha scritto Gaetano Berruto ai primi Duemila: «ora che sappiamo parlare italiano, possiamo anche (ri)parlare dialetto».

Per riassumere, dalla polarizzazione fra scritto e parlato – e dunque fra italiano e dialetti – si è arrivati a un italiano comune e quotidiano. Non bisogna però pensare che questa varietà sia omogenea in tutta la penisola. Al contrario, si può parlare di tante diverse varietà regionali: su una base italiana si innesta una componente locale, fatta di accenti, singole parole, costruzioni sintattiche dialettali o ricavate italianizzando il dialetto. È un processo complesso, che è stato ben descritto da Paolo Nori in un libro intitolato – non per caso – Scuola di scrittura emiliana per non frequentanti.

L’italiano-italiano, l’italiano doc, quello dove si dice giuoco e non gioco, quello dove pésca e pèsca sono due cose diverse, quello dove si seguono tutte le regole dettate non dall’uso, ma dalle grammatiche, cioè quello dove si parla così non perché è così che si parla, ma perché è così che si dovrebbe parlare, lo parleranno, in Italia, due o tre mila persone, gli altri parlano in una lingua che risente del posto in cui viene parlata […]. Per quello la scuola si chiama emiliana, non perché si debba scrivere in emiliano (ci sono state anche scuole di scrittura emiliana all’estero, in Lombardia, in Piemonte, in Liguria, in Sardegna e in Canton Ticino, perfino) ma per sottolineare il fatto che a chi partecipa a questa scuola verrà chiesto di lavorare anche su una lingua concreta, regionale, grossolana, una lingua dove difficilmente chi parla dice cribbio o poffarbacco, e più facilmente dice vacco mondo o zio campanaro.

Si capisce, insomma, che per trasporre il parlato sulla pagina non si può fare a meno dell’elemento locale e regionale. Un fatto, in realtà, tutt’altro che nuovo. Per restare nel perimetro dei libri del premio Strega, già Pasolini in Ragazzi di vita (1955) aveva adoperato massicciamente il dialetto per far sentire ai suoi lettori la voce dei sottoproletari delle borgate romane.

«Tiè, bevi!» ciancicò il Cagone, cacciando dalla saccoccia la boccetta di strega mezza piena: il maestro la guardò, la prese e sotto lo sguardo soddisfatto del Cagone, bevve una ingollata. Pure l’altri cacciarono le mezze bottiglie ch’erano restate e offrirono a tutta l’orchestra.
«Ma nun ve chiama mamma?» fece il baffone capo sala, «ma nun dovete annà a dormì?».
«A Baffò», fece Ugo, «Io me la compro tutta, st’orchestra»

Il romanesco invade le pagine di Pasolini, concentrandosi soprattutto – ma non solo – nei dialoghi («nun dovete annà a dormì?»). Ci sono però altri modi di simulare il parlato. Qualcosa di diverso lo fa ad esempio Primo Levi nella Chiave a stella (1979) in cui usa una strategia che possiamo definire non solo senza luogo, ma anche senza tempo.

Eh no: tutto non le posso dire. O che le dico il paese, o che le racconto il fatto: io però, se fossi in lei, sceglierei il fatto, perché è un bel fatto. Lei poi, se proprio lo vuole raccontare ci lavora sopra, lo rettifica, lo smeriglia, toglie le bavature, gli dà un po’ di bombé e tira fuori una storia; e di storie, ben che sono più giovane di lei, me ne sono capitate diverse.

A parlare è l’operaio specializzato Tino Faussone, che spiega subito – usando le metafore del suo mestiere – come va fatto un racconto: aggiustando e limando i particolari per catturare gli ascoltatori. Ed è proprio quello che fa anche l’autore Levi, immaginando un facondo protagonista capace di affabulare il lettore. Le interiezioni («Eh no»), le ripetizioni («sceglierei il fatto, perché è un bel fatto»), le dislocazioni («di storie […] me ne sono capitate diverse») sono il modo di avvicinarsi al suo parlato, di presentare un personaggio verosimile con un’economia di mezzi linguistici che è stata impiegata da tanti autori del Novecento e pertanto possiamo considerare tradizionale.

Si è detto avvicinarsi al parlato, non riprodurre. Trascrivere il parlato è infatti impossibile, come sa bene chi ha provato a sbobinare un discorso orale. Si può però provare a simularlo, usando alcune tecniche che danno un’impressione di verosimiglianza. Un’operazione assimilabile all’uso della prospettiva in campo pittorico, in cui la tridimensionalità percepita dal nostro occhio è il risultato di elementi geometrici che creano una linea di fuga dello sguardo. Il testo suona come il parlato, ma è in realtà il risultato di una serie di artifici tecnici ben congegnati e calibrati. Per ottenere questo effetto si possono adottare due strategie.

Una consiste nell’impiegare alcune soluzioni tipiche di quella che si usa chiamare la «grammatica del parlato». Si tratta di utilizzare alcuni elementi che infrangono la norma grammaticale – alcuni esibiti errori volontari – per creare un effetto di oralità. Le soluzioni più comuni sono quelle che i linguisti chiamano dislocazioni («lo vedi il bar?» Testori, Il ponte della Ghisolfa), alcuni usi del che («Parla pulito Cencelli, che io non sono tuo fratello» Pennacchi, Canale Mussolini), il cosiddetto ci attualizzante («c’aveva sbattuto contro la faccia» Giordano, La solitudine dei numeri primi), certi periodi ipotetici («se lo sapevo, andavo allo stabilimento» Moravia, I racconti). Tutti questi tratti si allontanano dalla norma grammaticale, ma sono invece comuni nei nostri discorsi, vale a dire nell’italiano orale dell’uso medio.

L’altra tecnica – che non è alternativa, ma anzi di solito si aggiunge alla prima – consiste nel simulare i meccanismi linguistici del dialogo, lavorando su quella che in linguistica si chiama «pragmatica». Oltre alla grammatica del parlato, insomma, una pragmatica del parlato. Lo abbiamo già visto in parte con le interiezioni e le ripetizioni nel brano di Levi riportato prima; ma la tecnica è ancora più evidente in questo stralcio dalle Donne di Messina di Elio Vittorini (1949).

“M’ero fermato”, continuò, “scendo, e gli vado incontro in quella oscurità non completa ma che per me era completa poiché guardavo coi miei fari ormai da un pezzo. Mi bagno anche abbastanza nel salto che faccio. Bene, mi dico, questo ci riavvicina, fratello! Ma non sono a metà strada tra il mio camion e lui, che sento il tipo come strilla...”
Chiese F.R.: “Come?”
“Non so. Ma l’interessante era quello che diceva. La classe operaia! La classe operaia!”
“La classe operaia?”
“Diceva di riconoscere nel mio modo di fare la nuova insolenza che sarebbe la classe operaia. Non che strillasse proprio. Parlava con energia. E dice che una volta erano le vetture dei gran signori a innaffiare di fango le persone come lui. Mentre ora saremmo noi coi nostri camion…”

Ci sono frasi interrogative che rendono fluido il dialogo («Come?» «La classe operaia?»), ripetizioni («oscurità non completa ma che per me era completa»), puntini di sospensione che danno conto delle interruzioni o dei cambi nei turni di battuta («strilla…»), la resa dei propri pensieri («bene, mi dico»), frasi brevi e coordinate («Parlava con energia. E dice che […]»).

Sono queste le strategie che, ormai da più di un secolo, permettono di stilizzare la resa letteraria del parlato nella maniera a cui siamo più abituati. Talmente abituati da essere ormai convinti che la lingua parlata sia fatta davvero così. In realtà, quando si è cominciato a studiare il parlato reale – quello delle persone che parlano spontaneamente tra di loro – ci si è accorti di come questo non sia del tutto vero. Ad esempio, come ha osservato la linguista Miriam Voghera, fenomeni come la paratassi, le frasi brevi e lo stile nominale non sono affatto caratteristiche proprie dell’oralità. Andiamo con ordine e cominciamo col dire che nei nostri discorsi la subordinazione batte la coordinazione: «il parlato usa prevalentemente nessi subordinanti ad alta frequenza. Non è un caso che il nesso subordinante più usato sia il pronome relativo seguito dalla congiunzione che». Ancora, contrariamente alla percezione del lettore comune (educato da almeno un secolo di “stile semplice”), è il periodo lungo – non quello breve – a evocare meglio le cadenze della lingua parlata. Nel parlato reale, infatti, l’organizzazione del discorso «non produce solitamente una diminuzione di materiale sintagmatico, a parità di contenuto preposizionale, ma anzi diluisce il testo e spesso lo allunga. Ciò risulta evidente dalla trascrizione di testi parlati, che danno spesso l’impressione di testi slabbrati». In altri termini: nel parlato ci sono più parole, perché chi parla tende a diluire e allungare: non può scegliere attentamente le parole come farebbe nello scritto. Lo stesso, infine, vale per lo stile nominale. «In realtà, la tendenza a usare un alto numero di frasi nominali e nominalizzazioni […] è ormai diffusa anche in testi scritti che non hanno alcun intento di semplificazione», in cui anzi «il risultato è quello di produrre un testo ad alta densità lessicale e di difficile elaborazione» per il venir meno della necessaria ridondanza.

Tentativi di emulazione del parlato sono stati tentati da molti scrittori, che hanno però ottenuto una prosa sperimentale. La comprensione del testo, infatti è rallentata o addirittura compromessa, come si vede in questo passo di Edoardo Sanguineti, che si propone di fare nel romanzo Capriccio italiano (1963) una «registrazione al magnetofono» del parlato:

Poi io misi un disco, che era un metodo per lo spagnuolo. Così B. disse che potevamo anche fare il giuoco del romanzo, che è poi quel giuoco che so da due anni, che l'ho imparato in Francia, che M., che è medico, disse subito che è molto meglio che le associazioni libere, e che io trovo che è molto meglio davvero. Ma il romanzo lo fecero le due donne, cioè A. e la cugina di mia moglie, che sarebbe poi C., che non lo conoscevano mica ancora, il giuoco, che non si può mica fare, se no.

Alla luce di queste premesse si può guardare con maggiore cognizione di causa al corpus di romanzi raccolti nel Primo Tesoro della narrativa italiana del Novecento e della contemporaneità. Cominciamo con qualche dato statistico. Se osserviamo il grafico con le parole per frase (fig. 3), ci accorgiamo ad esempio che i picchi verso l’alto, cioè gli autori che usano frasi più lunghe, si trovano tutti, con l’unica eccezione del Volponi della Macchina mondiale, dopo gli anni Settanta. Gli scrittori che adoperano frasi più brevi invece si dispongono invece lungo tutta la storia del premio Strega. Fra di loro ci sono anche narratori che certo non associamo alla semplicità: Berto, Pavese e Mastronardi, oltre cinquant’anni fa, usavano meno parole per frase di Dacia Maraini o di Melania Mazzucco.

Questa brevità, però – va ribadito ancora una volta – non può essere considerata di per sé la prova di uno stile semplice, così come non lo è la sintassi nominale. Fra gli scrittori più prodighi di frasi senza verbo (fig. 4) ci sono infatti l’espressionista Gadda, il barocco Consolo o – più di ogni altro – il Landolfi vincitore nel 1975 con i racconti di A caso. «Un sublime pasticheur sia della letteratura europea sia della lingua italiana» lo definiva Maria Bellonci, l’ideatrice del premio. C’è da aggiungere, in tempi più recenti, anche Sandro Veronesi, che ha spesso usato una lingua con effetto forte sul lettore. In Caos calmo, quasi ogni capitolo è scritto in uno stile diverso, in modo da colpire sempre l’attenzione del lettore.

Sovrapponendo i due grafici (fig. 5), poi, non si ottiene una linea di tendenza che punta in direzione della semplificazione. E questo significa che il nostro campione di romanzi segue una strada diversa rispetto all’italiano scritto dell’uso medio e in particolare all’italiano giornalistico, in questi stessi anni si è invece mosso verso una sintassi fatta di frasi più brevi e spesso nominali. In base ai calcoli fatti da Ilaria Bonomi nel suo L’italiano giornalistico, ai primi del Duemila il periodo sintattico di un articolo di quotidiano era composto in media da 20-25 parole: negli anni Cinquanta del Novecento erano 30-35; negli anni Ottanta circa 28.

Veniamo ora a qualche dato qualitativo, andando a cercare nell’insieme di questi testi del Nuovo Tesoro alcuni tratti linguistici della grammatica del parlato. Tra questi, uno dei più riconoscibili è l’uso di ’sto per questo (fig. 6): impiegato fin dagli anni Cinquanta e sopravvissuto fino a oggi, come dimostrano le attestazioni degli ultimi anni. Osservando da vicino i vari esempi, però, ci si accorge che questa forma è legata soprattutto alla resa del parlato meridionale. La gran parte delle attestazioni si trova infatti nel romanesco simulato dei due romanzi di Pasolini. Tra gli altri, le attestazioni più fitte si trovano in Ferito a Morte di Raffaele La Capria (1961), nel Corpo di Napoli di Enrico Montesano (1999), in Via Gemito di Domenico Starnone (2001): tutti libri ambientati a Napoli. Si possono aggiungere Vita di Melania Mazzucco (2003), con i suoi personaggi campani emigrati negli Stati Uniti, e anche due ambientazioni romane: quella di Resistere non serve a niente di Walter Siti (2013), studioso e ammiratore di Pasolini, e della Scuola cattolica di Edoardo Albinati (2016).

Fenomeni ancora più tipici della grammatica del parlato sono usi come c(i) ho (fig. 7), a me mi (fig. 8) e ma però (fig. 9). Anche in questo caso molte attestazioni si trovano nei due romanzi di Pasolini, che sembra aver sfruttato più di tutti gli altri queste sgrammaticature. Se si guarda più specificamente alla forma ridondante – e censuratissima ancora oggi nella scuola – a me mi, si incontrano anche altre grandi firme della nostra narrativa novecentesca che hanno fatto della simulazione del parlato il cardine di alcuni loro romanzi. C’è la Natalia Ginzburg di Lessico famigliare (1963), in cui si riproduce la chiacchiera della sua famiglia borghese. C’è il Primo Levi della Chiave a stella, in cui – come abbiamo già visto – prende vita la parlata piemontese dell’operaio specializzato Tino Faussone. C’è, più vicino ai giorni nostri, l’Antonio Pennacchi di Canale Mussolini (2010), che racconta le vicende di una famiglia di contadini provenienti dalla bassa padana e trapiantati nell’agro pontino.

Per ciascun fenomeno, poi, si osservano alcune occorrenze sporadiche, distribuite su archi di tempo più o meno lunghi. Casi di c(i) ho e a me mi s’incontrano dagli anni Cinquanta fino a oggi, mentre per ma però c’è una censura netta, che coincide con gli anni Settanta del secolo scorso (l’ultimo esempio è nel romanzo La morte del fiume di Guglielmo Petroni, 1974). Va detto che queste apparizioni sporadiche possono essere considerate sintomi della vitalità (o della fortuna) di una forma, ma non hanno un impatto stilistico: diluite fino a dosi omeopatiche, perdono di rilevanza nella stilizzazione del parlato.

Come si sa, già Alessandro Manzoni, correggendo i Promessi Sposi, aveva sostituito i pronomi di terza persona egli ed ella con quelli dell’uso fiorentino del suo tempo, lui e lei. Eppure, la norma grammaticale veicolata dalla scuola ha fatto sì che per molti decenni l’uso di questi pronomi fosse avvertito come un’infrazione forse accettabile nel parlato, certo da evitare nello scritto. Si può dunque lavorare per contrasto, interrogando il Tesoro alla ricerca dei romanzi in cui non compare il pronome egli (fig. 10). Questa forma tende a scomparire nei periodi di maggiore sperimentalismo, cioè negli anni Sessanta e Settanta, per poi riaffiorare negli Ottanta, il decennio del “ritorno all’ordine”, come vedremo fra poco. Spicca, inoltre, l’assenza di egli nei romanzi degli ultimi quindici anni. In questo periodo, infatti, lo si trova solo in tre opere: La scuola cattolica, in cui è un tratto ricorsivo; M. Il figlio del secolo (2019), in cui appare nei tanti documenti con i quali Scurati arricchisce il suo affresco storico; infine, in misura minore, nel Colibrì di Veronesi (2020). Un’ulteriore prova del fatto che l’uso di egli è ormai un tratto avvertito come letterario, da impiegare solo per ottenere determinati effetti stilistici.

A maggior ragione letterario è l’uso di codesto, un pronome assente nell’uso parlato tranne che in Toscana. Ci sono, tuttavia. autori che lo impiegano con una certa frequenza (fig. 11): Palazzeschi nei Fratelli Cuccoli (1948), Landolfi in A caso (1974), Riccarelli nel Dolore perfetto (2004); tutti scrittori, non a caso, toscani o a vario titolo toscaneggianti.

A proposito di colore locale, un’indagine dello stesso tipo si può condurre sul dialetto: da sempre un elemento fondamentale nella resa della voce dei personaggi. Anche se non necessariamente in funzione di superficiale realismo, come provava a spiegare Pasolini nel 1960.

«Con Ragazzi di vita e Una vita violenta - che molti idioti credono frutto di un superficiale documentarismo - io mi sono messo sulla linea di Joyce e di Gadda: e questo mi è costato un tremendo sforzo linguistico.
Rifare, mimare il «linguaggio interiore» di una persona è di una difficoltà atroce, aumentata dal fatto che, nel mio caso la mia persona parlava e pensava in dialetto.
Bisognava scendere al suo livello linguistico, usando direttamente il dialetto nei discorsi diretti, e usando una difficile contaminazione linguistica nel discorso indiretto: cioè in tutta la parte narrativa.
Le stonature in questa operazione sono sempre a un pelo dalla scrittura: basta eccedere solo un minimo sia verso la lingua che verso il dialetto che il difficile amalgama si rompe, e addio stile.»

L’assenza di elementi dialettali (fig. 12) si concentra negli anni Quaranta-Cinquanta e negli anni Ottanta (dal 2006 sono a “dialetto zero” soltanto il 2008, il 2014, il 2015). I periodi di maggiore presenza del dialetto (fig. 13) sono proprio quelli in cui ci si apre al parlato: quelli più sperimentali degli anni Sessanta e Settanta da un lato e quelli più recenti. Anche se in generale un’apertura troppo ampia verso il dialetto e le abitudini del parlato non è stata quasi mai il viatico per una vittoria allo Strega. La grammatica sabbatica, in realtà, è piuttosto paradigmatica: con la resa del parlato che passa in secondo piano rispetto alla complessiva leggibilità linguistica. Ben lontano dal vincere lo Strega è rimasto ad esempio l’impasto italo-siciliano dei romanzi di Andrea Camilleri, nonostante due diverse partecipazioni.

Il tracciato dei vari grafici visti finora ricorda spesso quello di un elettrocardiogramma in cui si alternano irregolarmente sistoli e diastoli. Nondimeno, la diversa densità con cui appaiono in certi periodi gli specifici tratti linguistici considerati finora consente di individuare nella storia dello Strega quattro diverse fasi (fig. 14).

La prima dura fino all’inizio degli anni Sessanta ed è caratterizzata dall’oscillazione fra l’italiano letterario da un lato e resa del parlato popolare, talvolta con significative dosi di dialetto, dall’altro. Sono gli anni in cui si rompe definitivamente l’equivalenza fra italiano scolastico e italiano della narrativa. Le infrazioni più vistose, come si è detto, sono quelle dei romanzi pasoliniani. Ma non vanno sottovalutati altri esperimenti: come quello di Fenoglio, che prova a trasporre sulla pagina la voce dei contadini delle langhe, adoperando sì il colore locale, ma attingendo soprattutto alle risorse dell’italiano popolare e alle frasi idiomatiche.

– E dove sarebbe questa terra?
Tobia si alzò sui ginocchi per tirare più comodo un peto e poi si riabbassò: - Mica qui, mica su questa langa porca che ti piglia la pelle a montarla prima che a lavorarla. Io me la sogno su una di quelle collinette chiare subito sopra Alba, dove la neve ha appena toccato che già se ne va.

Quindi io sapevo i piani dei Rabino, e questo mi fece solo star male. Non me ne sarebbe fatto niente se con quel mio lavoro da galera io li avessi aiutati solo a togliersi la fame e il freddo, ma che mi pigliassero la pelle per arrivare a farsi roba loro proprio mentre a casa noi perdevamo il nostro bene tavola a tavola, questo mi mise l'invidia e un veleno nella mia stanchezza.

Nel libro intitolato Il premio Strega, la fondatrice del premio Maria Bellonci ricorda quando – nel 1960 – proprio Pasolini attaccò frontalmente Cassola e il suo La ragazza di Bube, che alla fine sarebbe risultato vincitore. «Sono qui a seppellire il realismo italiano», recitò in un’invettiva che suonava come un’orazione funebre, prendendo di petto quelli che per lui erano i «neo-puristi». Pochi anni dopo, Cassola e Bassani sarebbero stati additati dal gruppo 63 come «le Liale» del loro tempo.

Ma in quello stesso 1963, mentre a Palermo viene fondata la neoavanguardia, in libreria appaiono – a pochi mesi di distanza – La tregua di Primo Levi e Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, poi finalisti allo Strega (a vincere quell’anno sarà Ginzburg; Levi si rifarà nel 1979 con La chiave a stella). «La lingua letteraria italiana, oggi, è irrequieta, in essa succede qualcosa», notava in quegli anni la filologa Maria Corti: «il contraccolpo del progressivo mutarsi di situazione nel settore della lingua parlata non può non agire sul sistema nervoso letterario». Comincia qui una seconda fase: quella, come si diceva, più aperta alla sperimentazione. Il peso del dialetto si alleggerisce, mentre s’incrementano – attraverso altri strumenti linguistici – i tentativi di simulazione del parlato. Un parlato che non è più soltanto quello popolare, ma è anche quello borghese. Proprio come in Lessico famigliare.

“Com’è diventato paziente!” diceva mia madre. “Come ha pazienza con questi qua! Con noi non aveva mai pazienza, ci trovava noiosi quand’era a casa. A me mi pare che questi sono anche più noiosi di noi!”

A inaugurare la fase successiva – all’inizio degli anni Ottanta – è la vittoria di Umberto Eco con Il nome della rosa, manifesto di un postmoderno tutto concentrato sulla trama («il problema è costruire il mondo, le parole verranno quasi da sole» scriverà poi nelle Postille  a quel romanzo). La lingua della narrativa – e quella dei premi Strega – ora si pone in gran parte nel solco di un italiano medio, estraneo sia ai dialetti sia alle sgrammaticature. Si fanno meno frequenti usi ormai letterari come il pronome egli o il dimostrativo codesto, ma tendono a rarefarsi anche i tratti più tipici della grammatica del parlato. È, d’altronde, il decennio del Tolstoj di Citati (vincitore nel 1984), del Danubio di Magris e delle Nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso (finalisti nel 1987 e nel 1989): saggi narrativi di grande respiro sintattico e stilistico, lontanissimi per loro stessa natura da qualunque simulazione di parlato. Tra le poche eccezioni, una riguarda proprio «la strega di Zardino»: quella Antonia che, nella Chimera di Vassalli (vincitore nel 1990), viene condannata al rogo dall’inquisizione. «Ci ho un porco di seicento libbre, giù al paese... Una gran bestia! Se mi dite che l’affare vi sta bene, domani ve lo porto e mi riprendo Antonia».

Agli inizi degli anni Novanta, il vento cambia di nuovo. Nell’anno in cui la vittoria di Consolo (Nottetempo, casa per casa, 1992) segna nettamente le distanze dall’italiano medio, il dialetto torna allo Strega grazie a un altro scrittore siciliano: Andrea Camilleri.  La stagione della caccia non arriva neanche in cinquina, e la stessa sorte toccherà – nel 1995 – al Birraio di Preston.

«Ci scusassi, ma è per ordine di Sua Eccellenza il prefetto. Nessuno può lasciare il teatro prima della fine dell’opera».
«Vogliamo babbiare?» gridò Gammacurta, e per dare più forza alla domanda la tradusse in italiano. «Vogliamo scherzare?»
«Nonsi. E lei o torna dentro o io sono necessitato a portarla in carcere. E per una fesseria così, non mi pare il caso di passare una nottata in galera».

Eppure i tempi si stavano facendo maturi, come avrebbero dimostrato – poco dopo – Nel corpo di Napoli di Montesano (finalista nel 1999) o Via Gemito di Starnone e Vita di Mazzucco (vincitori nel 2001 e nel 2003). Romanzi in cui il dialetto è variamente declinato per riprodurre, in proporzioni diverse, quell’italiano regionale divenuto ormai la lingua parlata da tutti gli italiani. Di pari passo con il ritorno del dialetto, i romanzi hanno cominciato ad accogliere un numero crescente di forestierismi. Parole provenienti dall’inglese (nel decennio 2011-2020 otto romanzi su dieci superano i cento anglismi, contro i due o tre di media dei decenni fino al 2000), ma anche da altre lingue. E non si tratta soltanto di una questione di quantità, ma anche di varietà: a partire dagli anni Novanta, infatti, si affacciano nei libri dello Strega lingue nuove: come il coreano, lo slovacco, il sanscrito. Un romanzo come La ragazza con la Leica di Helena Janeczek (vincitore nel 2018), contiene parole provenienti dal russo, dall’ebraico, dall’ungherese, oltre che dal tedesco, dallo spagnolo, dal francese, dall’inglese. I confini tra l’italiano e le altre lingue, insomma, sembrano assottigliarsi sempre più. Il che vale, a maggior ragione, per i dialetti: quel babbiare oggi Camilleri non avrebbe più bisogno di tradurlo, visto e considerato che dal 2016 è stato accolto fra i lemmi dello Zingarelli.

Questa introduzione riprende, integra e aggiorna un saggio pubblicato nel volume Strega. Un premio che nessuno ha ancora immaginato, a cura di Stefano Petrocchi, Milano, Rizzoli, 2017.

  • - Pietro Trifone, La confessione di Bellezze Ursini “strega” nella campagna romana del Cinquecento, in «Contributi di Filologia dell’Italia Mediana», II (1998), pp. 79-136.
  • - Gaetano Berruto, Parlare dialetto in Italia alle soglie del Duemila, nel vol. La parola al testo. Scritti per Bice Mortara Garavelli, a cura di Gian Luigi Beccaria e Carla Marello, Alessandria, dell’Orso, 2002, vol. I, pp. 33-49.
  • - Paolo Nori, Scuola di scrittura emiliana per non frequentanti. Con esercizi svolti, illustrazioni di Yocci, Mantova, Corraini, 2014.
  • - Enrico Testa, Simulazione di parlato. Fenomeni dell’oralità nelle novelle del Quattro-Cinquecento, Firenze, Presso l’Accademia della Crusca, 1981.
  • - Miriam Voghera, Riflessioni su semplificazione, complessità e modalità di trasmissione: sintassi e semantica, in Scritto e parlato Scritto e parlato. Metodi, testi e contesti, a cura di M. Dardano, A. Pelo, A. Stefinlongo, Roma, Aracne, 2002, pp. 65-78.
  • - Maria Bellonci, Io e il premio Strega, postfazione di Fernanda Pivano, Milano, Mondadori, 1987.
  • - Dialoghi con Pasolini, in «Vie Nuove», 3 dicembre 1960.
  • - Maria Corti, La lingua e gli scrittori, oggi [1965] in Nuovi metodi e fantasmi, Torino, Einaudi, 2001, pp. 91-117.
  • - Ilaria Bonomi, L’italiano giornalistico. Dall’inizio del ‘900 ai quotidiani on line, Firenze, Franco Cesati Editore, 2002.


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